La Dalmazia di Enzo Bettiza, nazione incompiuta

“Esilio”, il romanzo autobiografico di Enzo Bettiza, compie 28 anni. Due articoli accademici gli sono stati dedicati, a firma del linguista Maciej Czerwiński, dell’Università Jagellonica di Cracovia.

La “nazione dalmata” re-immaginata da Bettiza

In Esilio,  il giornalista e sovietologo del Corriere della Sera Enzo Bettiza (1927-2017) racconta la sua storia personale, dalla nascita a Spalato al liceo a Zara fino alla partenza nel 1947, incrociata con la storia di più ampio respiro della sua famiglia e dell’intera Dalmazia dall’età napoleonica. “La storia della sua famiglia diviene una ragione per narrare una storia sulla Dalmazia“, scrive Czerwiński. Il libro, pubblicato nel 1996 al termine della guerra di Bosnia, riceve forte attenzione in Italia, vincendo anche il premio Campiello e viene tradotto e pubblicato tre volte in lingua croata.

Bettiza si discosta dalla tipica letteratura italiana sul confine orientale, che cerca per gli italiani solo il ruolo di vittima (ciò che  Guido Franzinetti ha definito “olocaustizzazione” del discorso sulle foibe). Al contrario, Bettiza “colloca concettualmente la Dalmazia… come spazio ibrido multidimensionale, in cui idiomi di civiltà sono intrecciati e sfocati”. In questo modo, secondo Czerwiński, “la storia privata di uno scrittore e della sua famiglia è utilizzata per re-inventare una Dalmazia multidimensionale, insieme multilingue e multiculturale“.

Bettiza “concettualizza l’ibridità dalmata attraverso la sua stessa ibridità familiare”. Una madre “slava”, cui attribuisce gli stessi caratteri orientalisti già definiti da Edward Said: irrazionale, strana, misteriosa, sensuale, pigra, cupida, irascibile, bellissima”. E un padre “italiano”: colto, razionale, compassionevole, tollerante, patriottico ma non nazionalista, gran lavoratore. “Se questa famiglia è metonimia della Dalmazia – scrive Czerwiński – tale regione è da comprendersi come spazio di una difficile ma possibile ibridizzazione”. Ma tale ibridità “non può essere su un piano di parità“, poiché una delle due culture è descritta come chiaramente superiore.

Rifacendosi agli studi di Larry Wolff (1994), Czerwiński sostiene che Bettiza riproponga una visione binaria che risale al Viaggio in Dalmazia di Alberto Fortis del 1747: un testo che, nel carattere dell’illuminismo, costruisce la Dalmazia come spazio di incontro tra amministrazione veneziana e ottomana, giustificando il dominio della Serenissima con una missione civilizzatrice che si espanda dal litorale fino al “buon selvaggio” morlacco dell’entroterra appena acquisito.

Allo stesso modo, secondo Czerwiński, in Esilio di Bettiza si può identificare uno spettro oriente-occidente: dall’Islam (la Bosnia) all’ortodossia (serbi e montenegrini), quindi gli slavi cattolici, ulteriormente suddivisi tra morlacchi dell’entroterra e boduli delle isole, e infine i dalmati di città, i più vicini ai dalmati italiani, rappresentati come essenza dell’occidente.

Nella narrazione di Bettiza, tali categorie etno-nazionali si sovrappongono alle classi sociali. L’autore ricorda come tutti i servi di casa Bettiza fossero slavi, e non cita un solo intellettuale cittadino di tale estrazione, omettendo esempi celebri come Ivo Tartaglia o Pribislav Grisogono.

Nella visione di Bettiza, c’è pertanto un centro riservato agli italiani, e varie periferie abitate dagli slavi. Allo stesso tempo, Bettiza si dichiara contro ogni odio reciproco tra italiani e slavi, e contro ogni forma di irredentismo nazionalista.

In tale contesto, Bettiza si fa promotore di ciò che definisce “la nazione dalmata“, come popolo ante lettera e incompiuto, rifacendosi agli ottocenteschi Niccolò Tommaseo e Antonio Bajamonti, quest’ultimo già sindaco di Spalato e capo del partito autonomista. Tali intellettuali, come scrive Dominique Kirchner Reill in Nationalists who feared the nation (2012),  “credevano che le nazioni non potessero esistere separatamente, e che pertanto non avessero altra scelta se non di crescere assieme”. Dario Saftich (2012) definisce tale visione come “negazione delle nazioni chiuse”. Bettiza vuole presentarsi come promotore di una Dalmazia multiculturale, pur presentando la cultura italiana come superiore, e associando le culture slave a varie sfumature di orientalità.

La ricezione dell’opera di Bettiza in Croazia

Esilio di Bettiza viene ampiamente distribuito nella Croazia appena indipendente, e riceve notevole attenzione critica. E se buona parte dei critici croati accetta la visione di Bettiza, alcuni di loro dissentono in maniera fondamentale. Come nota Czerwiński, ciò indica come la visione della Dalmazia sia oggetto di contestazione all’interno della stessa sfera culturale croata.

La prima reazione critica, già del 1996, fu di Frano Baras, quando il libro non era ancora stato tradotto. Baras accusa Bettiza di peccare di immaginazione, di costruire una nazione dalmata “né slava né italiana – e soprattutto non croata!”, e di terminare il libro in un “pamphlet diretto contro l’odierno Stato Croato”. Il critico associa dispregiativamente lo scrittore agli irredentisti e agli autonomisti dell’ottocento. Sulla stessa falsariga, la critica più radicale a Bettiza viene da Nino Raspudic (2010), che lo accusa di discorso a-storico e semi-orientalista, e sostanzialmente di mantenere uno sguardo coloniale. Raspudic contesta che la Dalmazia sia inventata, o perfino fabbricata, nel discorso di Bettiza, per negarne la sua appartenenza nazionale, e così renderla non-croata.

La critica più storiografica a Bettiza viene dall’accademico Petar Strcic, che in tre articoli nel 1996 mette in discussione l’idea di coesistenza che è centrale per Bettiza, e gli rinfaccia di non conoscere la storiografia croata. Secondo Strcic, “non ci fu né simbiosi né koiné“, bensì “due mondi opposti”, uno dei quali durante il dominio veneto si trasformò in amministrazione di governo a cui, come altrove, “una minoranza dei croati – maggioritari ma subordinati – iniziò ad assimilarsi”.

Josko Kovacic, infine, mette in dubbio l’italianità stessa dei Bettiza, rimarcando come tale famiglia discenda dalle classi popolari di Spalato, e si sia inculturata e assimilata all’italianità con la propria ascensione borghese: non veri italiani, quindi ma taljanasi, slavi italianizzati, traditori delle proprie origini – un fenomeno tipico di vari popoli colonizzati.

Una nazione incompiuta – o impossibile?

La visione di Bettiza è moderata rispetto alla maggioranza della letteratura degli esuli, conclude Czerwiński, e non si spande in accuse agli slavi o croati di orribili crimini contro gli italiani. Per Bettiza, la Dalmazia è croata, almeno in termini politici, per quanto sia storicamente e culturalmente multietnica. Tuttavia, la coesistenza di italiani e slavi si basa sul ruolo civilizzatore della cultura italiana.

Secondo Czerwiński, Bettiza non riesce a liberarsi dall’immaginare la Dalmazia come spazio diviso, tra est e ovest, e resta prigioniero di un immaginario nazionale e nazionalista. Tale visione finisce per riprodurre le percezioni tradizionali della regione. La Dalmazia accumula caratteristiche occidentali ed orientali, e si distingue solo per tale sovrapposizione, come “manifestazioni culturali ibride”. Tuttavia, nella visione di Bettiza, è la cultura italiana – simbolo dell’occidente – a prevalere: nella sua opera “la Dalmazia può essere Dalmazia soltanto finché resta parte dell’Occidente, ossia delle sue influenze italiane e centroeuropee (austro-ungariche)”, scrive Czerwiński. E tale amalgama culturale si può trovare solamente nell’ambiente borghese. In ciò, il ruolo degli slavi o croati resta marginale.

Bibliografia: 

  • Maciej Czerwiński, Spatiality in Esilio by Enzo Bettiza. The ambiguity of the multicultural and multilingual heritage of Dalmatia, Die Welt der Slaven, 69, 2024 (1), 137-162.
  • Maciej Czerwiński, Linguistic diversity in the border city of Split : literary representation of multilingualism in “Esilio” by Enzo Bettiza and its Croatian translation, Scando-Slavica, 70/1, 2023, 93-109.

Foto: cartolina del cementificio Gilardi e Bettiza, Spalato 1909 (pubblico dominio)

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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